Sugli indici ESG e “carbon free” c’è fermento. La nuova tassonomia Ue – vale a dire il sistema di classificazione delle attività sostenibili approvato dal Parlamento Europeo – è entrata in vigore nel 2020. Si tratta di un regolamento quadro che si propone di definire le attività che possono a giusto titolo essere considerate ESG.
La Benchmark regulation ha aggiunto ulteriori elementi obbligatori descrittivi necessari ad evitare il cosiddetto greenwashing, ovvero l’eventualità che fondi, (e quindi indici), vagamente ispirati a principi ESG si fregino di tale etichetta.
Trattandosi, però di un argomento per definizione in continua evoluzione, molti dettagli peccano di vaghezza. Un esempio? Si suggerisce di escludere le società appartenenti al settore carburanti fossili. Ma come le si individua? Gran parte dei gruppi petroliferi ha ormai anche forti interessi in energie rinnovabili, quindi non è ancora chiaro quale debba essere per esempio la ripartizione delle quote di ricavi che ne definisca l’inclusione o l’esclusione dai vari indici. Si tratta di un problema che si ripresenta spesso nel caso degli ESG, che non sempre presentano misure perfettamente quantificabili. L’ambizione è quindi quella di avere indici il più possibile standardizzati.
Un secondo ambito di interesse riguarda la “carbon reduction”. Infatti, la Commissione Europea ha presentato la sua visione strategica a lungo termine per un’economia prospera, moderna, competitiva e climaticamente neutra da raggiungere entro il 2050. La visione della Commissione per un futuro a impatto climatico zero interessa quasi tutte le politiche dell’UE ed è in linea con l’obiettivo dell’accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura mondiale ben al di sotto i 2°C e di proseguire gli sforzi per mantenere tale valore a 1,5°C.
In questa ottica, a livello di indici, ora i principali index provider stanno lavorando su quelli “carbon reduction”. Dopo i panieri sui titoli governativi, ora vi è un interesse enorme su quelli corporate.
Gli indici cosiddetti “carbon free” o comunque allineati al Green Deal o all’Accordo di Parigi, devono indicare i progressi effettuati, misurando qual è la traiettoria di ogni società nei confronti di questo obiettivo. Mancano tuttavia i dati: quelli che ci sono vengono infatti finora estrapolati da altri dati oggettivi riferiti al passato. Questa quindi sarà la vera sfida: misurare l’obiettivo utilizzando effettivamente dati previsionali, che sono comunque soggettivi.
I vari sistemi messi a punto dagli index provider si basano infatti sulla possibilità di effettuare simulazioni sulla base dell’intensità delle emissioni (vale a dire le emissioni per unità di prodotto), il livello cui si è arrivati nella sostituzione di energia fossile con energia alternativa, il livello di preparazione alla riduzione di emissioni e infine il trend di eventuale riduzione da un anno all’altro. Quest’ultimo è il vero obiettivo degli indici “carbon reduction”: misurare l’evoluzione e i progressi fatti nella diminuzione di emissioni di carbonio.
Gli indici però non servono solo come benchmark per etf o fondi di investimento. I regolamenti europei spingono verso la decarbonizzazione, quindi riuscire a entrare in questi panieri dimostrando l’impegno a ridurre le emissioni sarà fondamentale per molte società che saranno probabilmente premiate dalle varie leggi, e anche dagli investitori. Insomma, alla fine dovrebbero essere quelle con le migliori performance (delle azioni o dei bond) perché saranno le società più virtuose, che quindi che avranno meno rischi insiti.