Nel meeting di metà giugno la Federal Reserve ha deciso di rialzare i tassi Usa per la seconda volta nel 2017, portando la forchetta del Fed fund tra l’1% e l’1,25%, dopo il rialzo allo 0,75%-1% deciso lo scorso marzo. I tassi di interesse negli Stati Uniti tornano sopra l’1% per la prima volta dal 2008, da quando è scoppiata la crisi finanziaria dei sub-prime. Nelle sue dichiarazioni il Presidente Yellen ha informato che il Comitato si aspetta un’evoluzione delle condizioni economiche tali da garantire l’aumento graduale del tasso di riferimento. Inoltre, il Presidente della Fed ha evidenziato come sia necessario ridurre gli asset in portafoglio che hanno raggiunto 4.500 miliardi accumulati durante la crisi per risanare l’economia; il piano prevedrà una riduzione degli asset nell’ordine di 10 miliardi di dollari al mese.
Sebbene la decisione fosse ampiamente scontata dai mercati, il rendimento del Treasury decennale è ritornato in area 2.40, sui livelli massimi di maggio, grazie anche ai dati sul mercato del lavoro migliori delle attese. Il consenso degli economisti sconta l’inizio della riduzione del bilancio della Fed a settembre e un ulteriore rialzo del Fed fund a dicembre.
Discorso differente per quanto riguarda, invece, la Banca Centrale Europea: nella conferenza stampa di metà giugno, Mario Draghi ha annunciato di aver mantenuto invariato il livello dei tassi e il volume degli acquisti mensili. L’istituto centrale ha inoltre rivisto al ribasso le stime dell’inflazione al 1,5% per il 2017 dal precedente 1,7% e ha parlato di un’economia europea in rafforzamento che probabilmente si rafforzerà ulteriormente nei prossimi trimestri, ma che ciò non si è ancora tradotto in un consolidamento dell’inflazione, dove il problema principale rimane la bassa crescita dell’occupazione. La reazione dei mercati in seguito alle previsioni sull’inflazione è stata violenta e, come sostenuto da diversi membri della stessa Bce, ingiustificata. Sebbene sia intervenuto anche il capo economista Peter Praet per confermare con una dichiarazione che la missione della Bce non è ancora compiuta, i rendimenti di tutti i titoli europei, sia core sia periferici, a metà giugno sono così calati fino ai minimi di inizio anno. Successivamente, durante il forum della BCE di fine mese in Portogallo, il governatore Mario Draghi ha corretto il proprio messaggio usando parole diverse in tema di crescita, occupazione e soprattutto inflazione. Il mercato ha interpretato le nuove dichiarazioni come l’anticipazione di una prossima stretta di politica monetaria, procedendo alla massiccia vendita di titoli e riportando i rendimenti sui massimi dell’anno.
In generale gli ultimi discorsi dei presidenti delle banche centrali hanno delineato un quadro macroeconomico in lento ma graduale miglioramento: a livello nazionale, Standard & Poor’s ha alzato le stime della crescita per il 2017 dell’Italia a +1,2% (rispetto allo 0,9%) così come per Germania (2% nel 2017), Francia (1,6% nel 2017) e Spagna (+3%). Negli Stati Uniti l’istituto centrale ha rivisto al rialzo le stime sul Pil del 2017 al 2,2% e ha rivisto in miglioramento anche le stime sulla disoccupazione che nel 2017 dovrebbe attestarsi al 4,3%. La Fed ha invece rivisto al ribasso la stima sull’inflazione dal 1,8%-2,0% di marzo al 1,6%-1,7%. Le ultime rilevazioni di maggio riportano infatti un rallentamento dell’inflazione nominale dal 2,2% di aprile al 1,9% e di quella core dal 1,9% a 1,7%.
Dal Regno Unito, inoltre, arrivano indicazioni al rialzo dell’inflazione; la rilevazione di maggio ha sorpreso il mercato, con il tasso nominale che ha raggiunto il 2,9% anno su anno ed il dato core che ha toccato il 2,6%. La spinta al rialzo dell’indice dei prezzi è stato alimentato dal continuo indebolimento della sterlina post-Brexit, non accompagnato però da una crescita dei salari che rimane al di sotto delle aspettative. Gli effetti di questa situazione stanno iniziando ad intaccare il potere d’acquisto in Gran Bretagna, le vendite al dettaglio sono risultate in calo dell’1,6% e i consumi in rallentamento. Tutto questo ha inciso sull’andamento dei mercati azionari.
In particolare, tra i listini statunitensi, l’indice Nasdaq ha risentito dei dubbi degli operatori circa le valutazioni raggiunte da alcuni titoli del comparto tecnologico. Il contesto di bassa volatilità che continua a caratterizzare i mercati azionari globali, aumenta il rischio di assistere ad “esagerazioni” tra gli operatori. Una riduzione del 2% dell’indice dai massimi di inizio anno (+17,5%) ha fatto parlare di “drawdown”, “bagno di sangue” e persino di “nuova bolla dei tecnologici” sebbene il Nasdaq sia storicamente uno dei listini più volatili a livello globale. Gli indici S&P 500 e Dow Jones si mantengono sui livelli massimi storici, sostenuti dal recupero dei finanziari dopo l’esito positivo degli stress test condotti sulle banche americane. Per la prima volta da sette anni tutti gli istituti sotto esame sono stati promossi con la certificazione di avere abbastanza capitale da poter utilizzare per la distribuzione di dividendi e per l’attività di buyback. In Europa le performance dei mercati azionari sono state in larga parte condizionate dagli effetti delle politiche monetarie e dai movimenti della curva dei rendimenti sul mercato obbligazionario. Piazza Affari registra la migliore performance del periodo beneficiando del rialzo del settore bancario dopo l’approvazione da parte del governo del decreto legge che consente il salvataggio di Popolare di Vicenza e Veneto Banca. L’operazione salva gli istituti italiani da un effetto domino pericoloso e ha consentito di rassicurare e stabilizzare il sistema bancario nel suo complesso. Le due banche verranno separate in good banks rilevate da Banca Intesa (alla cifra simbolica di 1 euro) e bad banks per le quali il Tesoro che ha messo a disposizione 5 Mld come dote di garanzia dello Stato per compensare la riduzione dei coefficienti patrimoniali. Si mantiene sui massimi dell’anno anche l’indice dei Paesi Emergenti, grazie al recupero dell’area Latin America dopo le vicende che hanno coinvolto il presidente del Brasile e grazie al rialzo delle azioni cinesi, salite fino a toccare un massimo da 18 mesi. La società Morgan Stanley Capital Index, maggiore fornitore di indici al mondo, ha incluso per la prima volta le azioni A, ovvero i titoli della Cina continentale negoziate a Shanghai o Shenzhen in renminbi e fino al 2014 riservati solo agli investitori domestici, nei propri indici azionari.
Da segnalare, invece, gli effetti dell’accordo di maggio a Vienna fra membri OPEC e alleati non-OPEC per mantenere gli attuali tagli alla produzione sino a marzo 2018 e oltre se necessario (qualora le riserve mondiali non saranno ancora tornate alla media a 5 anni): l’accordo non è stato sufficiente a sostenere le quotazioni del greggio che permane sotto la soglia psicologica dei 50 $ al barile. La Nigeria e la Libia manterranno le esenzioni, mentre l’Iran, a cui era stato concesso di aumentare l’offerta a seguito della rimozione delle sanzioni internazionali, potrà mantenere invariato il proprio target produttivo. Le quotazioni del petrolio rimangono deboli perché il mercato si aspettava un segnale più forte, come l’ampliamento dei tagli o la rimozione delle esenzioni. Pesano inoltre un’offerta statunitense in continua espansione, le elevate scorte mondiali e i rischi geopolitici alimentati dalla recente intensificazione delle tensioni in Medio Oriente.
Sul fronte valutario, infine, l’intervento meno accomodante del previsto da parte del presidente della Bce Mario Draghi, ha portato ad un ulteriore marcato apprezzamento dell’Euro nei confronti del Dollaro con il cambio salito al massimo da oltre un anno. Da segnalare la debolezza dello Yen, in seguito alla sconfitta del premier Shinzo Abe alle elezioni amministrative di Tokyo, della Sterlina, sull’esito delle elezioni e delle valute emergenti, in particolare del Rand sudafricano, per la possibile nazionalizzazione della Banca Centrale.